l’unico tratto

l’unico tratto

piero zuccaro

Maria Buemi

Bruna Caniglia

Carlo e Fabio Ingrassia

Andrea e Marco Mangione

Cetty Previtera

Stefano Vespo

dal 12/12/2010 al 08/01/2011

L’UNICO TRATTO Quando l’uomo si lascia ottundere dalle cose, si lascia catturare dalla polvere. Quando si fa dominare dalle cose, il suo spirito si affatica e si inquina. (…) Io lascio che le cose seguano l’ottundimento delle cose, che la polvere si faccia catturare dalla polvere; in questo modo lo spirito non si inquina, e se lo spirito non si inquina, può esserci (autentica) pittura. (…) (1) Shitao (pittore cinese 1641-1708 ca.) In questi ultimi mesi sono venuto a conoscenza di un libro dal titolo “Sulla Pittura” del pittore cinese Shitao. Conoscere questo artista è stato una vera rivelazione per me, è come se vedessi teorizzato in quel testo il senso del mio sentire, di concepire l’arte e la pittura. Da qui il desiderio di condividere questo mio amore con i giovani artisti: Maria Buemi, Bruna Caniglia, Carlo e Fabio Ingrassia, Andrea e Marco (Gue’) Mangione, Cetty Privitera, Stefano Vespo nella speranza che il loro fare sia sempre genuino e privo della polvere contemporanea. Frequentandoli mi ha colpito quel luccichio dei loro occhi che rivelano una volontà forte del fare. Intendo un fare vero e concreto, privo di barocchismi di idee e parole; ed è nata così insieme a loro il desiderio di mostrare i lavori con questa mostra. Maria Buemi affronta lo spazio pittorico con attenzione certosina. L’immagine o sensazione percepita tende a dilatarsi, ad espandersi su tutta la superficie dipinta. Le sue immagini si strutturano attraverso un processo di stratificazione, di pennellate su pennellate, sfruttando i più piccoli rilievi della trama della tela, innescando variazioni di spessori di materie. Anche la forma del soggetto affrontato genera possibili stratificazioni pittoriche, attraverso le linee di demarcazione tra luce e ombra o tra il passaggio di un piano ad un altro. È una pittura che ha una matrice figurativa ma desidera attraverso uno sguardo analitico sintetizzare le forme, fino a restituirci una astrazione del visibile. La luce è un elemento a lungo amato e studiato e soprattutto negli ultimi lavori l’artista sta analizzando la reazione fisica della luce sulla materia pittorica. Analisi certo non facile trattandosi di dosare luce dipinta e luce reale, catturata attraverso i rilievi colorati. I passaggi tonali sono sapienti e ricchi di sfumature, segno di un fare lento e meditativo senza tralasciare l’insieme. Lo spazio infine è l’elemento che maggiormente Maria vuole afferrare, uno spazio reale o dell’immaginario non importa, ma che sia secondo le sue parole, ben organizzato e soprattutto sia spazio mobile, vibrante ed emozionante. Il lavoro di Bruna Caniglia si concentra nello studio della sua immagine di figura cangiante che si rispecchia. Studia se stessa, comprendendo che l’immagine da lei osservata è un’altra realtà, con le proprie strutture, inquietudini e regole segrete, che vanno approfondite e a volte assecondate. Ama studiare artisti che del loro corpo hanno fatto il proprio soggetto di indagine e d’espressione, come Andy warhol o Urs Luthi. Lavora principalmente con la pittura anche se scopre che gli studi fatti con la fotografia sono già opere che contengono quello che lei in fondo cerca. I suoi autoritratti sono spesso su fondo scuro, come a concentrare sempre più l’attenzione sul personaggio rappresentato mentre la pittura tende a stesure ricche di passaggi cromatici delicati tendenti ai colori cretosi. Questo isolare la figura dà all’immagine un sapore artificiale, come nella figura grande esposta in questa mostra, dove il soggetto è un corpo che appare come un grande manichino poggiato su un piano. I corpi, fra natura ed artificio sono l’elemento portante di questa ricerca, che si inserisce nel clima del contemporaneo, dove il disagio dell’essere è la linfa indagata. Non si può parlare del lavoro di Carlo e Fabio Ingrassia senza prima dire che il loro essere gemelli influenza il loro modo di lavorare. Abbiamo l’insolito fenomeno di due artisti ed una sola opera. Tanti artisti lavorano insieme ad uno stesso progetto ma in questo caso loro lavorano fisicamente sullo stesso punto, costruendo l’uno e decostruendo l’altro, arrivando ad una sorta di stasi, che è la sospensione, l’equilibrio dell’opera raggiunta. Carlo lavora con la mano destra e Fabio con la sinistra, come in uno specchio Fabio simula i movimenti di Carlo. Non amano parlare dell’opera, ma preferiscono parlare del lavoro artistico nel suo evolversi. Il lavoro deve appropriarsi di uno spazio e deve porre delle domande o far scaturire dei dubbi a chi osserva. L’opera, per usare le loro parole, “non deve svelare qualcosa, ma deve velare”. Nella loro ricerca indagano lo scorrere veloce del tempo, che porta con se il rumore di tanti linguaggi e che và, secondo loro, rallentato, desiderando includere la pausa. “Noi cerchiamo di bloccare il tempo, tendiamo a cavalcarlo; insomma l’opera deve contenere il movimento ed avere stasi, deve essere sospensione, una sospensione attiva. Il tempo si ascolta, come noi ascoltiamo il segno della matita. L’opera è un equilibrio compromesso”. Il loro lavoro appare severo e nello stesso tempo ironico, con una carica poetica forte e una struttura spaziale iconica. Non sono disegni, né sculture o installazioni, sono lavori sensibili. L’apparente freddezza dell’esecuzione è scaldata dal sentimento che struttura l’idea. Da un punto tratto con la matita ad una campitura, il segno è assorbito, lo spazio conquistato. Dal grigio grafite affiorano forme bidimensionali e tridimensionali, come se fosse un liquido di polvere grigia che genera, e dai vari grigi si ottengono le cromie dei corpi. Pensieri, ricordi, sensazioni, il tutto si condensa in splendide macchine-struttura. Andrea Mangione desidera affermare parti di elementi urbani che con le loro strutture creino una griglia un supporto alla pittura. Vi sono gradi del procedere, il primo sensoriale e il secondo strutturale e in effetti, il lavoro consiste nel dare struttura alla sensazione. Se osserviamo il dipinto “La Vecchia Fabbrica” del 2007, oltre alla emozionante atmosfera dell’insieme ben tenuta cromaticamente e strutturalmente, notiamo che l’inquadratura è stata scelta in modo tale che gli elementi che la compongono rivelano una nuova struttura: l’architettura del quadro. Quindi il processo è si naturalistico, ma con un’attenzione verso una realtà che rivela altro, oserei dire svela l’artificio che è presente nella visione stessa. Questa tendenza è rivelata dall’attenzione per tutto ciò che di “artificiale”si frappone tra l’occhio che osserva e la realtà osservata. E’ una pittura sensibile, trattenuta, realizzata con piccole pennellate. Vuole essere intima anche se affronta vedute esterne, fare intimo ciò che è esterno. Anche il piccolo formato rivela questo senso del raccoglimento, della preziosità che si ritrova non solo nella materia pittorica ma anche nei piccoli pastelli, dove lo sfumato dato al pigmento ci porta in atmosfere imprendibili ed acquose. Notiamo degli elementi come scritte o immagini da cartelloni pubblicitari che tagliano l’immagine incasellandola come fosse una pagina di rivista, creando così un’ambiguità visiva. Quello che è riprodotto sulla tela è una pagina di un rotocalco, o è la realtà stessa? Marco (Gue’) Mangione è un artista che ha guardato all’insegnamento della pop art e soprattutto all’arte di strada, con uno sguardo al mondo del fumetto e dei cartoni animati. Ha ben osservato attentamente che i personaggi inventati da questi creativi spesso sono diventati soggetti con una loro personalità che vivono una vita parallela alla nostra. Inoltre ha capito che il personaggio inventato può diventare un’icona visiva, riproducibile e riconoscibile. Qui entriamo nel vivo della sua ricerca, dentro un mondo di codici che obbediscono ad una determinata logica, ed un linguaggio segnico che ha le sue regole e propri canali di riferimento. Il lavoro di Gue’ si rifà a questo tipo di mondo, analizza i processi che creano il carattere di un personaggio e lo ripropone attraverso la pittura. Il suo lavoro risulta prezioso nella stesura del colore e nella scelta delle tonalità. Le sue “pupe” sono creature di plastica raffinata, un corpo che si espande e si dilata appropriandosi di tutto il campo visivo. Ad un primo sguardo l’opera ci cattura per il rigore compositivo dell’immagine, la pittura è distillata e i tagli dell’inquadratura sono fondamentali per restituirci un messaggio estetico ed ironico. La pittura di Cetty Privitera si forma direttamente sul supporto. Per capire bene la sua ricerca dobbiamo calarci nell’atto del suo dipingere. L’idea di partenza viene quasi subito tradita nel momento in cui il pennello intriso di colore si poggia sulla tela; Cetty avverte la presenza di “altro”, un sentire che la porta verso un mondo non calcolato, verso una nuova direzione. Stare dietro a questa nuova sensazione è un po’ faticoso, mi confessa, ma aggiunge che è comunque necessario assecondarla, bisogna predisporsi a cambiare i propri piani durante l’esecuzione. Non esiste un procedere unico. La tecnica è importante anche se è sempre in mutazione. Capisce che bisogna mettersi in attenzione ed ascoltare l’opera. In questi lavori notiamo un interesse per gli impasti cromatici, tonalità di bruni date quasi a velature e nello stesso tempo una presenza di piccoli grumi di materia di colore vibrante. Guardando un’opera di Stefano Vespo si ha l’impressione di osservare il soggetto rappresentato come se si vedesse attraverso un vetro, un prisma, che con la sua luce vitrea avvolge la scena. Il soggetto spesso indagato da Vespo è l’uomo, immerso nella sua quotidianità, nel suo spazio vitale. Dipingere la luce che si adagia sui corpi, nelle varie sfaccettature, è per lui determinante per capire e raggiungere l’intimo del soggetto indagato. Ogni frammento di corpo umano è un mondo cromatico a sé che si svela all’occhio del pittore attraverso varie vibrazioni e queste vengono fissate attraverso delicate velature. Nel ritratto della madre sul balcone, vi è un’ atmosfera di silenzio e di sospensione; è la cromia che parla con un linguaggio di passaggi morbidi, di tonalità apparentemente fredde. In quest’opera vi è una perfetta sintesi tra figura e sfondo che con la sua geometria di piani, costruisce un’ architettura stabile intorno alla figura. Il soggetto sembra immobile ma la posizione del piede che avanza verso l’osservatore, suggerisce compostezza scultorea e tensione. Nella sua ricerca tenta di sintetizzare pittura e condizione umana, una strada non certo facile, come dichiara lui stesso, “unire l’intuizione portatrice di verità visiva, all’onestà del fare”. Attraverso l’arte e la pittura desidera conoscere l’umano, e aggiunge, “l’artista deve rappresentare il proprio tempo”. Nel suo lavoro troviamo una tecnica che indaga, che vuole essere raffinata e nello stesso tempo avere la ruvidezza del contemporaneo. Note: (1) Schitao, Sulla Pittura, a cura di Marcello Ghilardi, capitolo xv Allontanarsi Dalla Polvere, pag. 95, edizione Mimesis Pensieri D’Oriente, 2008. Piero Zuccaro

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