Disegni e altri movimenti invisibili
(passaggi e culmini)
I colori sono del mondo, e chi disegna può disporne a proprio incontro e scontro, sceglierne in parte l’andatura, il sollievo, la meno metodica strada, forse la più similare ai fatti del silenzio e del rumore (dei passaggi e dei culmini).
I fatti di disegnare e gli atti di scrivere, nel lavoro di Francesco Balsamo sono il tratteggio del tempo, in una sottrazione, probabilmente, senza scampo; una perdita delle cose del mondo, in frammenti sparsi. Una sottrazione che con naturalezza fa la poesia, in un continuo scomporsi e ricomporsi della perdita, quel rinnovarsi del lasciare, che è inizio di tutto.
Ma i discorsi sono tanti, troppi, e allora chi disegna può scegliersi un colore e far sì che questo, una volta avveratosi in una forma (la forma di un oggetto, di un corpo, di una relazione) raggiunga il foglio, forse grazie a un varco momentaneo della realtà; realtà che mostra il proprio versante di senso e di nonsense, lirico e profondo come per nessun altro discorso.
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I valori musicali di una partitura disegnata – sia essa per forme o per ragionamenti – scaturiscono da strambe circostanze del vissuto. Chi può decifrarle o decifrarli? Forse suonarli, ecco allora: i fruitori o ascoltatori di un disegno possono trasformarsi – e non è automatico – in orchestrali, o anche – i più attenti – in direttori di quell’orchestra che il disegnatore, l’artista, ha formulato: quel suo personalissimo concerto di sogni e vissuti.
Forse i disegni di Francesco Balsamo sono naturali e perplessi mondi attraversati, forse mai del tutto compresi se non grazie a una matita. E lo strumento matita ha una vasta gamma di suoni, udibili ma non esplicabili a voce.
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Nei passaggi, come su una bilancia atemporale, si soppesano spazio e spazio: culminanti. Puntate di un dato corpo, o sue parti, gesti affatto silenti. Movimenti e movimenti, culmini. Sparizioni e ritorni nello stesso spazio di una pagina. Un foglio di carta è un sismografo, un accogli-mano, uno spazza-tempo. E, pure, è tutto lì e, come tutto, non è vero, è detto atto a sparire; allora i disegni sono armi per fantasmi. Titoli di mentre, ma la coda e la testa sono i primi a interessarsi a questo manifestarsi del mimo, del vestito e del fumo.
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Vi è, in questi disegni, un tessuto surreale o, piuttosto, irreale; ma questo è come dire che la parola serve solo a dirsi, scriversi e leggersi. O che si cresce solo per invecchiare. E che il tempo tiene male il tempo. Il disegno è il fuori-schema di ogni storia. E ogni storia non ha Storia, se non la propria, fatta a gesti o fatta per misure, ogni volta scucibili. Il disegnatore è un sarto, dunque. E le sue domande non fanno uso di coniugazioni astratte né assurgibili a un tempo astratto. Sono domande che si passano le punteggiature e traslocano di continuo, da una casa al futuro a una all’imperfetto, fino alla linea esatta di un volto indimenticabile, per fortuna confuso con un altro e un altro ancora.
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Qui, in questi fogli: il volto e le spalle chinate a cercare, l’immaginazione del bianco della carta, l’immaginazione in una boccia di vetro, le braccia conserte di una preghiera aerea, congiunzioni fra atmosfere o teste, le bilance delle foglie, e dita grandi e passeggere, mantelli di presente, una fune per un patto, una riva promessa, un cane-che-ruota, abbracci che sfrecciano, sonagliere, uova di uomo, travestimenti e profili, una mano come un cervo, una battaglia e un candelabro, il cappotto e la camera-riquadro, persone in simbiosi, e simboli, forse, simboli o stacchetti, vita e pratica del vivere, e morte che passa anch’essa per una matita. E ancora vita, stavolta astratta, quasi fosse riscritta, rivissuta, o più semplicemente trasparsa per un attimo o no.